Onora il padre e la madre (L'amore del Sangue)
iIl nostro incubo, ai quei tempi in redazione, erano i padri e le madri (più le madri, però, almeno da un punto di vista rigidamente statistico).
Noi cronisti eravamo ormai rotti a tutto, guardavamo troppo spesso con occhio cinico – anzi irritato – la processione di umanità che veniva a sedersi di fronte a noi in redazione, elencando torti subìti, sfogando rancori, vomitando propositi di vendetta, implorando aiuto. Alcune volte avevano ragione. Erano i casi migliori, casi cristallini, in cui era perfino possibile fare qualcosa, come ribellarsi, lottare, denunciare, prendersela con la polizia, l’assistenza sociale, i medici, l’istituto case popolari, quell’infame del vicino di pianerottolo. In quei casi un impulso nobile e antico ci faceva raddrizzare la schiena che con il passare degli anni si era afflosciata sulla sedia girevole. Cominciavamo a telefonare con tono concitato, finalmente pronti a usare a fin di bene quel poco di potere che avevamo.
La maggior parte purtroppo aveva torto. Erano i bugiardi, gli ipocondriaci, i paranoici, i depressi gravi. Più avevano torto e più erano insistenti e talvolta aggressivi. Io con quelli proprio non ci sapevo fare, ero giovane e insofferente e tranchant e consideravo un affronto personale il fatto che non facessero immediatamente proprie le mie considerazioni razionali ed equanimi sui loro casi: in altre parole mancavo di comprensione nella maniera più devastante.
Con gli ipocondriaci sbuffavo (così loro pensavano che non fossi interessata alle loro condizioni di salute, cosa peraltro verissima, e quindi si sentivano ancora più in pericolo), con i bugiardi non ce la facevo a reprimere sguardi severi (si offendevano e si sentivano giudicati – e male), con i paranoici m’incazzavo proprio e m'incaponivo a demolire pezzo a pezzo le loro tesi deliranti alzando la voce (così loro si convincevano che facessi parte del complotto, una volta mi toccò stare un’ora appiattita tra la porta della segreteria e la fotocopiatrice perché un egiziano grosso come un armadio – lo avevano giustamente condannato per lesioni gravi, visto che andava in giro a malmenare coinquilini e colleghi – voleva rompermi la testa perché non lo avevo preso sul serio).
Il peggio però lo davo con gli aspiranti suicidi, che mi facevano paura nella loro disperazione. Avevo dei colleghi anziani veramente bravi, per fortuna, di quelli capaci di avvicinarsi a un cornicione e a richiamare indietro con paroline dolci e suadenti gente già pronta a seguir le voci interiori che urlavano di gettarsi, gettarsi subito. Io no, ci litigavo, sudavo, mi mettevo sul loro stesso piano, minacciavo di chiamare le Volanti e i pompieri, oppure restavo in un silenzio tombale e raggelato, che era ancor più controproducente.
Una notte che ero di turno al giornale mi chiamò per l’ennesima volta l’aspirante suicida dell’autosalone.
Gli avevano sequestrato le macchine per qualche oscuro motivo, e da mesi verso le dieci immancabilmente telefonava per denunciare l’ingiustizia subita e al termine di un pippone interminabile e micidiale comunicava l’imminente dipartita. Faceva un caldo bestiale, l’aria condizionata era rotta, io ero al settimo mese di gravidanza e a casa avevo un figlio piccolo che vomitava le pappe perché non gradiva che andassi a lavorare, quindi non ero dispostissima all’ascolto. Anzi non ascoltavo per niente, tanto la storia la sapevo a memoria, ogni tanto dicevo “Sì, sì, certo”, quello probabilmente se ne accorse, o magari era stufo anche lui di quella pantomima. Ci salutammo come le altre volte, dopo un’ora di monologo. Io misi giù la cornetta e sbuffai. Lui mise giù la cornetta e si diede fuoco. Lo appresi dalla polizia durante il giro di controllo dell'ora successiva, mi venne veramente un accidente di senso di colpa, per fortuna le ustioni erano lievissime e a quel punto intervenne uno psichiatra, al posto del derelitto cronista di turno.
In compenso ero bravissima con i genitori, quelli con cui nessuno – neanche i più scafati – voleva parlare. Bastava pronunciare il termine “minorenne” per provocare un fuggi fuggi generale dai corridoi. Un omicida seriale con mannaia incuteva meno timore di una madre privata di un figlio, di un padre ingiustamente accusato di violenze. Io questi stranamente li sapevo ascoltare, non mi distraevo mai, come per miracolo ero capace di acquietarli, smettevano di piangere, avevo perfino una sorta di sesto senso che mi portava a individuare gli innocenti in un mare di testimonianze negative. Ma era un dolore, un dolore insopportabile che usciva dai loro discorsi e saturava ogni cosa attorno. Perché faceva così male, parlare con loro? Perché c’era sempre la paura di sbagliare, di dare ascolto a un adulto trascurando la felicità di un bambino, o forse perché avevamo paura di non saper essere buoni genitori e temevamo di poter cadere anche noi nell’abisso che aveva ingoiato quei padri e quelle madri.
E quando c’era di mezzo una morte subentrava il terrore della punizione che incombe su ogni genitore non abbastanza attento, la punizione più feroce, l’unica dalla quale era impossibile riprendersi, dimenticare, andare oltre. In quegli anni passavano tante madri di tossicodipendenti, uscite di fresco dalle stanze dell’obitorio. Allora si moriva per strada, senza l’ombra del dubbio in seguito offerto dalle “droghe intelligenti” , con un ago infilato nel braccio, come stracci lerci abbandonati sul pavimento di un cesso della stazione, su una panchina, sui sedili di una vecchia auto. Le madri arrivavano, con la loro storia sempre uguale. Il loro ragazzo era bello, buono, forte, sano. Lo avevano ammazzato, lo avevano ammazzato di botte. Chi? Gli amici, la polizia, un rapinatore. Bastava guardare il cadavere, lividi e sangue. Erano le uniche alle quali mentivamo, mentivo regolarmente. Non avevo cuore di dire che quel sangue e quei lividi si trovavano su ogni corpo, erano i segni della morte per overdose, non della violenza. Le lasciavo alla loro illusione, alla loro rabbia, al loro desiderio di avere giustizia. Che lottassero, che lottassero anche a vuoto e contro un nemico che non c’era, per continuare a vivere dopo l’orrenda punizione. Erano state cattive madri? Non si sapeva e non aveva alcuna importanza.
Ma anche con i genitori non era sempre tutto così drammatico. Anche lì per fortuna c’erano i casi lampanti, quelli nei quali i buoni sono chiaramente buoni e i cattivi indiscutibilmente cattivi, e soprattutto non muore nessuno.
La coppia di genitori illividita dal rancore entrò un mattino nella sala stampa di Palazzo di Giustizia, una sorta di grosso bugigattolo buio e triste, con un arredamento indefinibile e raccogliticcio, che ospitava le lunghe, esasperanti attese dei cronisti giudiziari: ore e ore, giorni su giorni, anni dopo anni trascorsi lì dentro, aspettando che arrivi una sentenza, che un pubblico ministero ti facesse accomodare, che ti rovinasse addosso un mucchio di carte da leggere e interpretare a velocità frenetica. Erano ore lente e polverose e spiacevoli, non si poteva neanche assaporare la dolcezza dell’ozio temporaneo perché tutti si guardavano in cagnesco, c’era sempre qualcuno che scivolava di soppiatto nei corridoi, qualcuno che era amico di un amico che aveva le carte prima degli altri. Questo non c’entra niente con la difficoltà di esser padri e madri, ma fa capire che gente acida e malmostosa e annoiata avesse accolto l’ingresso – non annunciato – dei due genitori dolenti. Cademmo in preda a sentimenti contrastanti. Una notizia che viene a cercare te (e non sei tu che vai a cercare lei) è quasi sempre un bidone privo di interesse; d’altra parte la sala cronisti non era un luogo bazzicato da padri e madri, quindi c’era la possibilità di un diversivo in mezzo al deserto umano e alla noia dei reati finanziari, delle tangenti, della criminalità organizzata.
Ci disponemmo all’ascolto di quel caso clamoroso. Padre e madre avevano un’età indefinibile, erano tozzi e sgraziati, di mestiere raccoglievano e rivendevano stracci con un furgoncino, parlavano un pessimo italiano con una cadenza meridionale pesante e sgradevole. Ci guardammo in faccia, occhiate di gente che la sa lunga e che volevano dire “Stiamo attenti, ingiustizia sociale in agguato”. I due erano inferociti. Tutti i figli gli avevano portato via, dati in affido, con la scusa che erano poco curati, che erano sporchi, che non facevano i compiti, che non ci si preoccupava di mandarli a scuola.
Cominciammo a prendere appunti e i due vedendoci interessati si galvanizzarono.
“Sette figli, ci hanno portato via! Ce li devono ridare”, disse lui.
“Macché sette, otto!”, lo interruppe lei.
“Sette, sono!”.
La lite coniugale andò avanti per qualche minuto, padre e madre gesticolavano e urlavano. Uno di noi, il più anziano e autorevole, un signore distinto con una chioma argentata, cercò di arginarli, anche perché lavorava per un’agenzia e ci teneva a essere veloce e preciso: “Ma insomma, potete dirci ESATTAMENTE quanti figli avete?”. Si placarono all’istante e cominciarono a contare sulle dita: “Ciro, Antonio, Filomena...”.
Silenzio.
“Filomena, Maddalena, Antonio, Ciro...”.
Silenzio.
Ricominciarono da capo, la fronte aggrottata dallo sforzo, spianandoci in faccia le dita. Non ci fu modo di arrivare oltre i sei nomi e le sei dita. Chissà se erano sette o otto, e soprattutto, chi era quel settimo bambino, poveraccio, che di sicuro c’era ma aveva lasciato poca traccia.
Smettemmo di prendere appunti. Loro capirono, perché erano gretti e ignoranti ma non stupidi. Sulla porta lei si girò e disse con rabbia: “Non è vero che trascuriamo i nostri figli”.
Non tutte le storie erano così semplici, purtroppo: quasi tutte avevano un che di lacerante.
La ragazza madre chiamò un pomeriggio di marzo, sull’orlo delle lacrime. I suoi genitori stavano facendo di tutto affinché il tribunale dei minori le portasse via la bambina di un anno – disse –, suo padre era il peggiore di quei suoi nemici, e il più accanito, perché non aveva mai avuto stima di lei, e non sopportava l’idea che la figlia avesse generato una nipotina con uno sconosciuto. Era addolorata ma non esagitata, la invitai a fare due chiacchiere. Arrivò un’ora dopo. La bambina aveva un nome bellissimo e insolito da ninfa greca, e questo mi parve un buon segno. Aveva una tutina rosa immacolata, le guanciotte piene e un sorriso pacifico: tutte cose che notai con piacere. Non potei fare a meno di notare, però, la capigliatura della mamma: da un lato un taglio morbido da parrucchiere, i capelli che ricadevano lisci sulla spalla, dall’altra una mutilazione inferta con le forbici, resti di ciocche sfatte che ombreggiavano a fatica l’orecchio sinistro. Non poteva certo essere un tentativo di taglio eseguito in casa e mal riuscito: riconobbi il gesto autolesionistico, la punizione inferta a sé stessi, il senso di inadeguatezza che esplode rabbioso davanti a uno specchio.
Non era giovanissima come mi ero aspettata, anzi portava già i segni dell’età e degli psicofarmaci, quella bambina doveva essere l’ultima sua speranza di avere una famiglia o qualcosa che le assomigliasse. Del padre della piccola non parlò affatto, e non volli indagare, visto che sembrava considerarlo estraneo al problema. Continuò a parlare del nonno, invece, e di quanto fosse infido e malvagio. Non sapevo cosa pensare. Gli occhi mi segnalavano l’esistenza di un problema, il sesto senso mi diceva che quella donna non era del tutto pazza. Intanto guardavo con apprensione la bambina infagottata nella tutina graziosa e imbottita, il sole primaverile scaldava la stanza, ci saranno stati minimo 25 gradi, da un momento all’altra la piccola sarebbe svenuta per il caldo oppure si sarebbe messa a urlare. Avevo paura di offendere, vista la situazione, ma alla fine riuscii a sussurrare: “Non è meglio slacciarle la tutina?”. La madre non si offese. Sorrise: “Oh, ma tanto adesso andiamo via. Non ha ancora pranzato, ora magari vado a farle la pastasciutta”. Erano le quattro del pomeriggio e io pensai agli orari prussiani di casa mia, ai ritmi rispettati con scrupolo religioso, un ritardo di mezz’ora su una pappa mi avrebbe gettato – suppongo – in un’angoscia incontenibile. Ma era l’unica forma di amore possibile, quell’amore ordinato, disciplinato, istruito? O funzionavano anche gli amori pasticcioni, sofferenti, un po’ animali? Non avevo una risposta, solo miliardi di dubbi. Uscirono impettite dall’ufficio, la madre dal taglio asimmetrico dopo la conversazione sembrava stare molto meglio. Io no.
Due mesi dopo telefonò un’altra madre, e fu ancora peggio. Chiese di poter venire alla sera tardi, per essere certa di non incontrare nessuno. Parlava con voce sommessa e non volle anticiparmi la natura del problema, ma quando la vidi entrare pensai che fosse venuta a riferire la storia di qualche parente, di una figlia, di una nipote: come madre sembrava fuori tempo massimo, questo era sicuro. Invece era venuta a parlare di sé. Dalla borsetta estrasse un fascicoletto di carte, poca cosa, e una minuscola fotografia in bianco e nero, un ritratto di bambina, sua figlia. Non la vedeva da forse trent’anni, forse quaranta, ora non ricordo. Ricordo molto bene, invece, quel che mi disse della sua giovinezza, e come me lo disse, torcendosi le mani intrecciate in grembo e sussurrando con un fil di voce anche se eravamo sole, io e lei, in un palazzo d’uffici, deserto nella sera estiva.
Era venuta a Milano dalla provincia, negli anni del boom. Bastava guardarla per capire che non doveva esser stata mai una bella ragazza: era troppo alta, poco femminile, i lineamenti del volto non del tutto irregolari ma troppo marcati, un gran naso. Ma era giovane e si era innamorata di un uomo sposato e più anziano, che le aveva fatto mille promesse. Era rimasta incinta, e lui era sparito. Lei si era disperata, ma in quella tristezza le era rimasta la piccola: neanche per un secondo aveva pensato di separarsene, anche se era sola e non poteva chiedere aiuto. “Ero povera, e non sapevo come tirare avanti. So che ho sbagliato e mi vergogno”.
Si era prostituita.
Era difficile crederlo, guardando quella crocchia di capelli grigi e crespi raccolti sulla nuca, i tratti severi: sembrava una bidella in pensione, una bidella anni Cinquanta. Ma naturalmente era possibile. Mi venne in mente quando eravamo bambini e abitavamo in un quartiere di palazzi d'epoca e villette di lusso affogate nell'edera, però pieno di prostitute anche in pieno giorno. Già allora erano vistose, tacchi alti, cosce un po’ in vista, borsette dondolanti. Tuttavia a poche decine di metri dall’angolo di casa nostra ce n’era una anzianotta vestita come un'impiegata, capelli tinti di un prudente color castano, con un fisico sfortunato, mal celato da tailleur sempre scuri, lunghi fino al ginocchio. Mi sorrideva tutte le volte che passavo. Doveva essere una madre di famiglia perché una volta che aveva nevicato e avevo la gamba ingessata scivolai sul ghiaccio e lei mollò di corsa la postazione di lavoro per venire a raccogliermi, mi asciugò il sangue dal naso con gesti delicati ed esperti, mi ripulì la cartella dalla fanghiglia e mi scortò fino al portone, regalmente incurante degli sguardi di fuoco della portinaia che ci teneva molto al decoro del palazzo borghese e in più odiava i bambini.
Per un attimo le due figure si sovrapposero. Una prostituta che perde la figlia e una prostituta che asciuga il naso di una bambina sconosciuta. Chissà dove era finita, quella che mi aveva raccolto da terra e da quel giorno mi aveva salutata tutte le volte che mi vedeva tornare da scuola (restituivo il saluto con il pieno beneplacito di mia madre, che reputava rassicurante la presenza sotto casa di una prostituta così per bene e così protettiva, e poi non amava i pregiudizi, essendo stata trattata da reietta in anni allora non troppo lontani). Un bel giorno non l’avevamo più vista, doveva essere andata in pensione – almeno così ci piacque pensare. Ma non poteva certo essere la signora che avevo davanti ora e che stava ancora raccontando – non tornavano le età, i volti –, era stata solo una fantasia.
Non avevo mai visto un dolore così vivo, a così tanta distanza. L’avevano scoperta a vendersi e le avevano portato via la piccola, incuranti delle circostanze. Lei, annientata dalla solitudine, dall’ingenuità, dal senso di colpa, non aveva saputo reagire. Solo anni dopo le era balenata chiara l’ingiustizia patita. Tra le carte ne aveva una che mi sconvolse, era una lettera scritta da un magistrato che si occupava di minori e che conoscevo bene, un magistrato rigoroso, poco incline ai sentimentalismi, un sergente di ferro dei diritti infantili. Era una lettera di scuse, il plateale riconoscimento di un errore. Non avevo mai visto una cosa del genere, una tragedia condensata in poche righe, la lampante banalità dell’arbitrio.
Non ho mai capito se fosse venuta solo per parlare, o se cercasse davvero un aiuto. Voleva rintracciare la figlia perduta, per dirle che non l’aveva abbandonata, che le aveva voluto bene, che aveva sbagliato per amore: ma un articolo su un giornale, con foto, sarebbe stato un gesto inutile, scioccante e violento, ne convenimmo insieme. Non si fece più viva, dopo quella sera, e di lei, sì di lei sì, mi dispiacque davvero non avere più notizie.
Noi cronisti eravamo ormai rotti a tutto, guardavamo troppo spesso con occhio cinico – anzi irritato – la processione di umanità che veniva a sedersi di fronte a noi in redazione, elencando torti subìti, sfogando rancori, vomitando propositi di vendetta, implorando aiuto. Alcune volte avevano ragione. Erano i casi migliori, casi cristallini, in cui era perfino possibile fare qualcosa, come ribellarsi, lottare, denunciare, prendersela con la polizia, l’assistenza sociale, i medici, l’istituto case popolari, quell’infame del vicino di pianerottolo. In quei casi un impulso nobile e antico ci faceva raddrizzare la schiena che con il passare degli anni si era afflosciata sulla sedia girevole. Cominciavamo a telefonare con tono concitato, finalmente pronti a usare a fin di bene quel poco di potere che avevamo.
La maggior parte purtroppo aveva torto. Erano i bugiardi, gli ipocondriaci, i paranoici, i depressi gravi. Più avevano torto e più erano insistenti e talvolta aggressivi. Io con quelli proprio non ci sapevo fare, ero giovane e insofferente e tranchant e consideravo un affronto personale il fatto che non facessero immediatamente proprie le mie considerazioni razionali ed equanimi sui loro casi: in altre parole mancavo di comprensione nella maniera più devastante.
Con gli ipocondriaci sbuffavo (così loro pensavano che non fossi interessata alle loro condizioni di salute, cosa peraltro verissima, e quindi si sentivano ancora più in pericolo), con i bugiardi non ce la facevo a reprimere sguardi severi (si offendevano e si sentivano giudicati – e male), con i paranoici m’incazzavo proprio e m'incaponivo a demolire pezzo a pezzo le loro tesi deliranti alzando la voce (così loro si convincevano che facessi parte del complotto, una volta mi toccò stare un’ora appiattita tra la porta della segreteria e la fotocopiatrice perché un egiziano grosso come un armadio – lo avevano giustamente condannato per lesioni gravi, visto che andava in giro a malmenare coinquilini e colleghi – voleva rompermi la testa perché non lo avevo preso sul serio).
Il peggio però lo davo con gli aspiranti suicidi, che mi facevano paura nella loro disperazione. Avevo dei colleghi anziani veramente bravi, per fortuna, di quelli capaci di avvicinarsi a un cornicione e a richiamare indietro con paroline dolci e suadenti gente già pronta a seguir le voci interiori che urlavano di gettarsi, gettarsi subito. Io no, ci litigavo, sudavo, mi mettevo sul loro stesso piano, minacciavo di chiamare le Volanti e i pompieri, oppure restavo in un silenzio tombale e raggelato, che era ancor più controproducente.
Una notte che ero di turno al giornale mi chiamò per l’ennesima volta l’aspirante suicida dell’autosalone.
Gli avevano sequestrato le macchine per qualche oscuro motivo, e da mesi verso le dieci immancabilmente telefonava per denunciare l’ingiustizia subita e al termine di un pippone interminabile e micidiale comunicava l’imminente dipartita. Faceva un caldo bestiale, l’aria condizionata era rotta, io ero al settimo mese di gravidanza e a casa avevo un figlio piccolo che vomitava le pappe perché non gradiva che andassi a lavorare, quindi non ero dispostissima all’ascolto. Anzi non ascoltavo per niente, tanto la storia la sapevo a memoria, ogni tanto dicevo “Sì, sì, certo”, quello probabilmente se ne accorse, o magari era stufo anche lui di quella pantomima. Ci salutammo come le altre volte, dopo un’ora di monologo. Io misi giù la cornetta e sbuffai. Lui mise giù la cornetta e si diede fuoco. Lo appresi dalla polizia durante il giro di controllo dell'ora successiva, mi venne veramente un accidente di senso di colpa, per fortuna le ustioni erano lievissime e a quel punto intervenne uno psichiatra, al posto del derelitto cronista di turno.
In compenso ero bravissima con i genitori, quelli con cui nessuno – neanche i più scafati – voleva parlare. Bastava pronunciare il termine “minorenne” per provocare un fuggi fuggi generale dai corridoi. Un omicida seriale con mannaia incuteva meno timore di una madre privata di un figlio, di un padre ingiustamente accusato di violenze. Io questi stranamente li sapevo ascoltare, non mi distraevo mai, come per miracolo ero capace di acquietarli, smettevano di piangere, avevo perfino una sorta di sesto senso che mi portava a individuare gli innocenti in un mare di testimonianze negative. Ma era un dolore, un dolore insopportabile che usciva dai loro discorsi e saturava ogni cosa attorno. Perché faceva così male, parlare con loro? Perché c’era sempre la paura di sbagliare, di dare ascolto a un adulto trascurando la felicità di un bambino, o forse perché avevamo paura di non saper essere buoni genitori e temevamo di poter cadere anche noi nell’abisso che aveva ingoiato quei padri e quelle madri.
E quando c’era di mezzo una morte subentrava il terrore della punizione che incombe su ogni genitore non abbastanza attento, la punizione più feroce, l’unica dalla quale era impossibile riprendersi, dimenticare, andare oltre. In quegli anni passavano tante madri di tossicodipendenti, uscite di fresco dalle stanze dell’obitorio. Allora si moriva per strada, senza l’ombra del dubbio in seguito offerto dalle “droghe intelligenti” , con un ago infilato nel braccio, come stracci lerci abbandonati sul pavimento di un cesso della stazione, su una panchina, sui sedili di una vecchia auto. Le madri arrivavano, con la loro storia sempre uguale. Il loro ragazzo era bello, buono, forte, sano. Lo avevano ammazzato, lo avevano ammazzato di botte. Chi? Gli amici, la polizia, un rapinatore. Bastava guardare il cadavere, lividi e sangue. Erano le uniche alle quali mentivamo, mentivo regolarmente. Non avevo cuore di dire che quel sangue e quei lividi si trovavano su ogni corpo, erano i segni della morte per overdose, non della violenza. Le lasciavo alla loro illusione, alla loro rabbia, al loro desiderio di avere giustizia. Che lottassero, che lottassero anche a vuoto e contro un nemico che non c’era, per continuare a vivere dopo l’orrenda punizione. Erano state cattive madri? Non si sapeva e non aveva alcuna importanza.
Ma anche con i genitori non era sempre tutto così drammatico. Anche lì per fortuna c’erano i casi lampanti, quelli nei quali i buoni sono chiaramente buoni e i cattivi indiscutibilmente cattivi, e soprattutto non muore nessuno.
La coppia di genitori illividita dal rancore entrò un mattino nella sala stampa di Palazzo di Giustizia, una sorta di grosso bugigattolo buio e triste, con un arredamento indefinibile e raccogliticcio, che ospitava le lunghe, esasperanti attese dei cronisti giudiziari: ore e ore, giorni su giorni, anni dopo anni trascorsi lì dentro, aspettando che arrivi una sentenza, che un pubblico ministero ti facesse accomodare, che ti rovinasse addosso un mucchio di carte da leggere e interpretare a velocità frenetica. Erano ore lente e polverose e spiacevoli, non si poteva neanche assaporare la dolcezza dell’ozio temporaneo perché tutti si guardavano in cagnesco, c’era sempre qualcuno che scivolava di soppiatto nei corridoi, qualcuno che era amico di un amico che aveva le carte prima degli altri. Questo non c’entra niente con la difficoltà di esser padri e madri, ma fa capire che gente acida e malmostosa e annoiata avesse accolto l’ingresso – non annunciato – dei due genitori dolenti. Cademmo in preda a sentimenti contrastanti. Una notizia che viene a cercare te (e non sei tu che vai a cercare lei) è quasi sempre un bidone privo di interesse; d’altra parte la sala cronisti non era un luogo bazzicato da padri e madri, quindi c’era la possibilità di un diversivo in mezzo al deserto umano e alla noia dei reati finanziari, delle tangenti, della criminalità organizzata.
Ci disponemmo all’ascolto di quel caso clamoroso. Padre e madre avevano un’età indefinibile, erano tozzi e sgraziati, di mestiere raccoglievano e rivendevano stracci con un furgoncino, parlavano un pessimo italiano con una cadenza meridionale pesante e sgradevole. Ci guardammo in faccia, occhiate di gente che la sa lunga e che volevano dire “Stiamo attenti, ingiustizia sociale in agguato”. I due erano inferociti. Tutti i figli gli avevano portato via, dati in affido, con la scusa che erano poco curati, che erano sporchi, che non facevano i compiti, che non ci si preoccupava di mandarli a scuola.
Cominciammo a prendere appunti e i due vedendoci interessati si galvanizzarono.
“Sette figli, ci hanno portato via! Ce li devono ridare”, disse lui.
“Macché sette, otto!”, lo interruppe lei.
“Sette, sono!”.
La lite coniugale andò avanti per qualche minuto, padre e madre gesticolavano e urlavano. Uno di noi, il più anziano e autorevole, un signore distinto con una chioma argentata, cercò di arginarli, anche perché lavorava per un’agenzia e ci teneva a essere veloce e preciso: “Ma insomma, potete dirci ESATTAMENTE quanti figli avete?”. Si placarono all’istante e cominciarono a contare sulle dita: “Ciro, Antonio, Filomena...”.
Silenzio.
“Filomena, Maddalena, Antonio, Ciro...”.
Silenzio.
Ricominciarono da capo, la fronte aggrottata dallo sforzo, spianandoci in faccia le dita. Non ci fu modo di arrivare oltre i sei nomi e le sei dita. Chissà se erano sette o otto, e soprattutto, chi era quel settimo bambino, poveraccio, che di sicuro c’era ma aveva lasciato poca traccia.
Smettemmo di prendere appunti. Loro capirono, perché erano gretti e ignoranti ma non stupidi. Sulla porta lei si girò e disse con rabbia: “Non è vero che trascuriamo i nostri figli”.
Non tutte le storie erano così semplici, purtroppo: quasi tutte avevano un che di lacerante.
La ragazza madre chiamò un pomeriggio di marzo, sull’orlo delle lacrime. I suoi genitori stavano facendo di tutto affinché il tribunale dei minori le portasse via la bambina di un anno – disse –, suo padre era il peggiore di quei suoi nemici, e il più accanito, perché non aveva mai avuto stima di lei, e non sopportava l’idea che la figlia avesse generato una nipotina con uno sconosciuto. Era addolorata ma non esagitata, la invitai a fare due chiacchiere. Arrivò un’ora dopo. La bambina aveva un nome bellissimo e insolito da ninfa greca, e questo mi parve un buon segno. Aveva una tutina rosa immacolata, le guanciotte piene e un sorriso pacifico: tutte cose che notai con piacere. Non potei fare a meno di notare, però, la capigliatura della mamma: da un lato un taglio morbido da parrucchiere, i capelli che ricadevano lisci sulla spalla, dall’altra una mutilazione inferta con le forbici, resti di ciocche sfatte che ombreggiavano a fatica l’orecchio sinistro. Non poteva certo essere un tentativo di taglio eseguito in casa e mal riuscito: riconobbi il gesto autolesionistico, la punizione inferta a sé stessi, il senso di inadeguatezza che esplode rabbioso davanti a uno specchio.
Non era giovanissima come mi ero aspettata, anzi portava già i segni dell’età e degli psicofarmaci, quella bambina doveva essere l’ultima sua speranza di avere una famiglia o qualcosa che le assomigliasse. Del padre della piccola non parlò affatto, e non volli indagare, visto che sembrava considerarlo estraneo al problema. Continuò a parlare del nonno, invece, e di quanto fosse infido e malvagio. Non sapevo cosa pensare. Gli occhi mi segnalavano l’esistenza di un problema, il sesto senso mi diceva che quella donna non era del tutto pazza. Intanto guardavo con apprensione la bambina infagottata nella tutina graziosa e imbottita, il sole primaverile scaldava la stanza, ci saranno stati minimo 25 gradi, da un momento all’altra la piccola sarebbe svenuta per il caldo oppure si sarebbe messa a urlare. Avevo paura di offendere, vista la situazione, ma alla fine riuscii a sussurrare: “Non è meglio slacciarle la tutina?”. La madre non si offese. Sorrise: “Oh, ma tanto adesso andiamo via. Non ha ancora pranzato, ora magari vado a farle la pastasciutta”. Erano le quattro del pomeriggio e io pensai agli orari prussiani di casa mia, ai ritmi rispettati con scrupolo religioso, un ritardo di mezz’ora su una pappa mi avrebbe gettato – suppongo – in un’angoscia incontenibile. Ma era l’unica forma di amore possibile, quell’amore ordinato, disciplinato, istruito? O funzionavano anche gli amori pasticcioni, sofferenti, un po’ animali? Non avevo una risposta, solo miliardi di dubbi. Uscirono impettite dall’ufficio, la madre dal taglio asimmetrico dopo la conversazione sembrava stare molto meglio. Io no.
Due mesi dopo telefonò un’altra madre, e fu ancora peggio. Chiese di poter venire alla sera tardi, per essere certa di non incontrare nessuno. Parlava con voce sommessa e non volle anticiparmi la natura del problema, ma quando la vidi entrare pensai che fosse venuta a riferire la storia di qualche parente, di una figlia, di una nipote: come madre sembrava fuori tempo massimo, questo era sicuro. Invece era venuta a parlare di sé. Dalla borsetta estrasse un fascicoletto di carte, poca cosa, e una minuscola fotografia in bianco e nero, un ritratto di bambina, sua figlia. Non la vedeva da forse trent’anni, forse quaranta, ora non ricordo. Ricordo molto bene, invece, quel che mi disse della sua giovinezza, e come me lo disse, torcendosi le mani intrecciate in grembo e sussurrando con un fil di voce anche se eravamo sole, io e lei, in un palazzo d’uffici, deserto nella sera estiva.
Era venuta a Milano dalla provincia, negli anni del boom. Bastava guardarla per capire che non doveva esser stata mai una bella ragazza: era troppo alta, poco femminile, i lineamenti del volto non del tutto irregolari ma troppo marcati, un gran naso. Ma era giovane e si era innamorata di un uomo sposato e più anziano, che le aveva fatto mille promesse. Era rimasta incinta, e lui era sparito. Lei si era disperata, ma in quella tristezza le era rimasta la piccola: neanche per un secondo aveva pensato di separarsene, anche se era sola e non poteva chiedere aiuto. “Ero povera, e non sapevo come tirare avanti. So che ho sbagliato e mi vergogno”.
Si era prostituita.
Era difficile crederlo, guardando quella crocchia di capelli grigi e crespi raccolti sulla nuca, i tratti severi: sembrava una bidella in pensione, una bidella anni Cinquanta. Ma naturalmente era possibile. Mi venne in mente quando eravamo bambini e abitavamo in un quartiere di palazzi d'epoca e villette di lusso affogate nell'edera, però pieno di prostitute anche in pieno giorno. Già allora erano vistose, tacchi alti, cosce un po’ in vista, borsette dondolanti. Tuttavia a poche decine di metri dall’angolo di casa nostra ce n’era una anzianotta vestita come un'impiegata, capelli tinti di un prudente color castano, con un fisico sfortunato, mal celato da tailleur sempre scuri, lunghi fino al ginocchio. Mi sorrideva tutte le volte che passavo. Doveva essere una madre di famiglia perché una volta che aveva nevicato e avevo la gamba ingessata scivolai sul ghiaccio e lei mollò di corsa la postazione di lavoro per venire a raccogliermi, mi asciugò il sangue dal naso con gesti delicati ed esperti, mi ripulì la cartella dalla fanghiglia e mi scortò fino al portone, regalmente incurante degli sguardi di fuoco della portinaia che ci teneva molto al decoro del palazzo borghese e in più odiava i bambini.
Per un attimo le due figure si sovrapposero. Una prostituta che perde la figlia e una prostituta che asciuga il naso di una bambina sconosciuta. Chissà dove era finita, quella che mi aveva raccolto da terra e da quel giorno mi aveva salutata tutte le volte che mi vedeva tornare da scuola (restituivo il saluto con il pieno beneplacito di mia madre, che reputava rassicurante la presenza sotto casa di una prostituta così per bene e così protettiva, e poi non amava i pregiudizi, essendo stata trattata da reietta in anni allora non troppo lontani). Un bel giorno non l’avevamo più vista, doveva essere andata in pensione – almeno così ci piacque pensare. Ma non poteva certo essere la signora che avevo davanti ora e che stava ancora raccontando – non tornavano le età, i volti –, era stata solo una fantasia.
Non avevo mai visto un dolore così vivo, a così tanta distanza. L’avevano scoperta a vendersi e le avevano portato via la piccola, incuranti delle circostanze. Lei, annientata dalla solitudine, dall’ingenuità, dal senso di colpa, non aveva saputo reagire. Solo anni dopo le era balenata chiara l’ingiustizia patita. Tra le carte ne aveva una che mi sconvolse, era una lettera scritta da un magistrato che si occupava di minori e che conoscevo bene, un magistrato rigoroso, poco incline ai sentimentalismi, un sergente di ferro dei diritti infantili. Era una lettera di scuse, il plateale riconoscimento di un errore. Non avevo mai visto una cosa del genere, una tragedia condensata in poche righe, la lampante banalità dell’arbitrio.
Non ho mai capito se fosse venuta solo per parlare, o se cercasse davvero un aiuto. Voleva rintracciare la figlia perduta, per dirle che non l’aveva abbandonata, che le aveva voluto bene, che aveva sbagliato per amore: ma un articolo su un giornale, con foto, sarebbe stato un gesto inutile, scioccante e violento, ne convenimmo insieme. Non si fece più viva, dopo quella sera, e di lei, sì di lei sì, mi dispiacque davvero non avere più notizie.