Il giorno che seppi che il Naca era morto era estate piena e io stavo attraversando il centro di Milano tutta contenta con uno zainone sulle spalle e gli scarponi ai piedi, diretta al pullman che mi avrebbe portata lassù in montagna. Camminavo e sorridevo e sudavo, e non pensavo al Naca. Era partito da pochi giorni, magro come come un chiodo per via dell'allenamento – abbracciandolo avevo sentito per la prima volta tutte le ossa, quelle costole che ancora porto impresse contro le mie – e per molti giorni ancora non sarebbe tornato da quel postaccio improponibile che nessuno di noi si era preso neppure la briga di andare a guardare dove fosse. Però sapevamo che era in Pakistan, perché la mamma del Naca, mettendogli del cibo nel piatto glielo faceva immancabilmente pesare: "Questo nel Pakistan non ce lo avrai, neh."
Alla mamma del Naca le montagne non piacevano per niente, le subiva e basta. Io lo sbertucciavo. In gita gli passavo un formaggino e poi gli facevo notare, con marcato accento piemontese, che in Pakistan se lo sarebbe sognato.
Poi il Naca era partito per la spedizione, e io che le montagne le amavo non mi preoccupavo per niente, e aspettavo fiduciosa il momento in cui avrei rivisto quella frangetta sghemba, il sorrisone mezzo ridente, gli occhi strizzati nel sole.
Ero davanti alla sede dell'associazione del trekking, ormai: il pullman sarebbe arrivato di lì a minuti. Faceva un caldo bestiale, ma all'improvviso fu come se una mano ghiacciata mi avesse stretto il cuore. Non so spiegarlo bene, se non che provai una sensazione di terrore puro, primitivo, inspiegabile e pertanto indomabile. Farfugliai delle scuse a caso e mi precipitai a casa, come una pazza.
Infilai la chiave nella toppa, spinsi, ero nell'ingresso. Sembrava tutto a posto, anche il cane era vivo, mi venne incontro facendomi le feste. Ma non feci in tempo a depositare lo zaino e a pensare che avevo buttato all'aria una vacanza che squillò il telefono.
Ci sono toni di voce che basta una sola parola per farti capire tutto, anche se ancora non puoi aver capito niente. Mi bastò il "ti devo dire una cosa" di Giorgio per farmi venire voglia di urlare, e poi urlai davvero, e gli buttai giù il telefono malamente come se fosse stata colpa sua se il Naca era morto in uno stupido incidente stradale prima ancora di arrivare al campo base.
Non sarebbe tornato. Non lo avrei più visto, non lo avrei più abbracciato, non ci saremmo più fatti le linguacce e gli occhi storti da una casa all'altra quando nei nostri rispettivi salotti erano in corso visite indesiderate. Era francamente, assolutamente e irrimediabilmente inaccettabile.
E che non sarebbe tornato non era un modo di dire, era anche un fatto fisico, concreto, la maledetta valle del maledetto Pakistan era irraggiungibile, la strada pericolosa – come purtroppo si era visto – e così il Naca l'avevano lasciato lì, tra le montagne che non era nemmeno riuscito a toccare.
Sperimentammo nel modo più crudele il senso dei riti, e degli addii codificati, tristi ma così normalizzanti, così definitivi. Il non averlo con noi permise di continuare a delirare, a pensare a un equivoco, uno scambio di persona, permise infinite notti con sogni dolcissimi di ritorni, e di risvegli pieni di lacrime perché non era vero.
Ci fu sì, una breve commemorazione alla casa di riposo della comunità ebraica di Torino, le vecchiette piangevano il loro dottorino, fresco di laurea e ridanciano: ma non bastava, abbiamo bisogno di posti da pensare, di pietre, di cose solide da toccare perché i ricordi rischiano di sparire.
Alla fine qualcuno pensò – per ricordarlo – a un rifugio da ristrutturare, a nome del Naca. Se lo fosse scelto da solo, non avrebbe fatto di meglio, arroccato com'era tra le pietraie e le nevi di una valle selvaggia, uno di quei terreni avventurosi e faticosissimi in cui si svolgevano le "nacamulate", un classico estivo, interminabili arrancate collettive che conducevano il nostro gruppo in quell'insidiosa zona psicologica che sta tra l'esaltazione e la crisi isterica.
Sì, il rifugio Nacamuli al col Collon al Naca sarebbe piaciuto tantissimo – "da qui partono solo itinerari alpinistici" e sentiero marcato con la doppia E, tratti di salita con le ginocchia in bocca, non certo cose da madamine lagnose. E tutto attorno picchi, sfasciumi, pendii bellissimi e severi, remoti.
Quando il rifugio dell'Ale grande (il Naca) fu pronto, ormai era nato Ale piccolo, il mio primogenito. Lo inaugurarono con tanto di elicotteri: ci andarono i nostri genitori, noi no. Io lo sapevo che sarei andata a trovarlo in un altro modo, nel modo che ci aveva insegnato lui. Come spiegarlo, che modo era? È difficile. Però posso dire che tutte le volte che leggo la storia dell'alpinista e partigiano Sandro Dalmastro nel Sistema periodico, mi viene in mente il Naca, perché la "carne dell'orso" di cui parla Primo Levi la conoscevamo e ci piaceva. Lo stampo, mutatis mutandis, era quello di Levi: alpinisti, torinesi, ebrei, antifascisti. Erano perfino vicini di casa, i Naca e i Levi, in corso Re Umberto.
Il momento sognato e sperato arrivò molti anni dopo, quando non ci ero preparata . Un gruppo di scialpinisti sarebbe salito al Nacamuli, per una traversata verso la Svizzera. Non potevo non andare, era proprio una nacamulata, zaino pesante, ramponi in saccoccia e meteo incerto.
La montagna ci accolse con il suo volto peggiore, quel grigio primaverile che riesce a far apparire deprimenti le valli più spettacolose. Una nebbia collosa aderiva ai pendii, azzerando le vette e confondendo i contorni con un alone spettrale. Ci attendeva una lunga, lunga salita, perché la strada del lago, di solito sgombra, era piena di neve e transitabile solo con gli sci.
E non era giornata. Nello zaino, oltre a ramponi-imbragatura-thermos-sacco lenzuolo-moschettoni-lame rampanti c'era tutto il peso di un uomo debole e infelice e ferocemente egocentrico, con il quale mi stavo rovinando la vita. Così nel trascinare uno sci avanti all'altro – comunque fiduciosa che prima o poi il sole si sarebbe affacciato e che prima o poi le endorfine scatenate dall'esercizio fisico mi avrebbero risollevata da quell'umore plumbeo – il Naca mi mancava particolarmente. Ero Tom senza Huckleberry Finn, avevo la nostalgia di un amico leale e allegro.
Dopo un'ora di cammino in effetti mi sentii meglio, anche se la salita era ancora tutta da fare, e il percorso reso incerto da quella visibilità bislacca. Ci avvicinammo a un gruppo di baite evidentemente abitate, e ci venne incontro un cane. Doveva essere un incrocio di un numero indefinito e indefinibile di razze, non era bellissimo secondo un'iconografia classica: orecchie triangolari ritte, pelo giallastro, mandibola possente, corpo magro e muscoloso. "Un tipo interessante," lo avremmo definito, in termini umani.
Il cane mi si avvicinò, e annusò ripetutamente i guanti che gli porsi, prima di schizzare all'inseguimento di un altro gruppo di scialpinisti, sull'altro versante della vallata. Ci rimasi male, non saprei dire perché. A quel punto noi stavamo contemplando i ripidi pendii soprastanti, chiedendoci dove fosse il passaggio migliore per accedere alla parte superiore del percorso.
Il cane giallastro ricomparì trafelato qualche minuto dopo, e prese il comando. Non c'erano dubbi sul suo comportamento: ci stava indicando la strada. Correva avanti e indietro, in silenzio ma eloquente. Lo seguimmo, convinti che fosse il cane del rifugio Nacamuli, una sorta di Caronte delle nebbie.
Mi sentivo già molto meglio, sennonché a quel punto subentrò la grande maledizione dello scialpinista: la neve umida cominciò a formare uno zoccolo sotto le mie pelli di foca. A ogni passo trascinavo un peso immane, l'attrito mi uccideva. Mi fermavo, pulivo, asciugavo le pelli, passavo la sciolina. Niente da fare: dopo pochi minuti ero daccapo, con il piombo appeso ai piedi.
Rimasi indietro. Ogni volta che alzavo gli occhi i compagni erano più lontani, dopo un po' sparirono nella nebbia. Lo sconforto era assoluto e mi sarei volentieri seduta a singhiozzare nella neve se non fosse stato per la consapevolezza che in un modo o nell'altro al Nacamuli ci sarei dovuta arrivare, e che un pianto solitario non avrebbe giovato affatto. Era in situazioni come quelle che le nacamulate riservavano qualche scherzo bestiale, qualche burla destinata a risollevare il morale delle truppe: scherzi sempre pensati per passare dal pianto al riso – vittima compresa –, e mai viceversa.
Dalla nebbia a un tratto sbucò il cane. Mi fissò con aria interrogativa, poi partì, poi tornò. Stava facendo la spola. Camminavamo ormai da ore, il pendio si fece ripido, poi ripidissimo, e a quel punto ci ricompattammo. Il cane impedì a Paolo di uscire dalla traccia di salita per scattare una fotografia: gli si mise davanti e lo costrinse a rimettersi in fila.
Il tempo stava peggiorando, cominciò a nevicare, fiocchi sbiechi, incattiviti. Il cane partì a razzo nella tormenta e dopo un quarto d'ora tornò portandosi appresso Luca, l'altra guida alpina del gruppo, che era arrivata al Nacamuli da una vallata vicina. Si placò e smise di abbaiare solo dopo essersi accertato che Luca mi avesse preso lo zaino. Luca si era visto venire incontro quel cane agitatissimo, e lo aveva seguito.
Zigzagammo sull'ultimo sperone di roccette e neve, ormai incuranti della bufera e della stanchezza. Il Nacamuli era lì, una sagoma scura e tozza nel bianco lattiginoso. Togliemmo sci e scarponi con dita intirizzite, sorvegliati dal cane.
I rifugisti però non lo accolsero come uno di famiglia. "È vostro?" domandarono, indicando l'animale giallastro. "No," dicemmo noi, "non è il cane del rifugio?".
Venne fuori che quella bestia nocchiera era assolutamente sconosciuta. Nel frattempo si era sistemata in sala, e accettava di buon grado ma con grande dignità grattatine dietro le orecchie.
Noi stavamo ingurgitando tè e tisane e Luca ci avvisava sui rischi connessi alle funzioni fisiologiche. I cessi del Nacamuli, come in molti rifugi nella stagione invernale, erano un rudimentale, disgustoso gabbiotto sospeso sull'abisso: ci si arrivava con una rampa di scale appoggiate alla roccia, e piene di neve. Ma prima di arrivare alla rampa c'era da discendere una roccia moderatamente inclinata, resa insidiosissima da neve e ghiaccio: con quella visibilità e quelle condizioni c'era da stare attenti a non fare uno scivolone che si sarebbe concluso centinaia di metri più in basso, tra rocce (mortali) ed escrementi (schifosi).
Cercai di resistere il più possibile ai richiami della natura, ma a un certo punto temetti che mi sarebbe esplosa la vescica. Infilai gli scarponi, uscii sulle roccette e mi trovai di fianco il cane, con quei suoi occhi svegli e le orecchie ritte. Mi si parò davanti, bloccandomi il pendio. Gli posai la mano sul dorso muscoloso e lui piano piano scese la roccia inclinata, fino a depositarmi sulla scala. Uscendo lo ritrovai lì ad aspettarmi, mi riaccompagnò lungo le scale, mi offrì il dorso poi rientrò a mangiare e bere.
Ero turbata, ma non osai dire nulla.
Al momento di andare a dormire mi scelsi una cuccetta, mi sistemai, mi girai e me lo vidi davanti, gli occhi scintillanti nel buio, ai piedi del letto, sveglio e vigile. Quando nella camerata uno sconosciuto cominciò a russare, e io cercai di zittirlo schioccando la lingua, il cane intervenne con due abbaiate che lo misero a tacere.
La mattina dopo lo trovai legato in cucina. Il cane misterioso era stato identificato, e lo avrebbero riaccompagnato a valle, dove abitava. Era figlio, dissero i gestori del rifugio, di un vecchio cane che aveva salvato molti alpinisti caduti nei crepacci attorno al col Collon.
Io ero stata in Bhutan, dove i cani che seguono i trekker vengono sfamati perché considerati reincarnazioni di alpinisti morti, però non osavo dirlo, e neppure pensarlo – siamo persone razionali. Fu Luca a dirlo, dopo un po': "Quello era Nacamuli che ti è venuto incontro."
Non lo so se era vero, non lo saprò mai, e per l'appunto urta la mia razionalità. Tuttavia mi piace moltissimo pensarlo, di aver in qualche modo incontrato il Naca, non proprio come nei sogni, ma è meglio di niente.
Nella foto: il Naca con la sua tipica frangia sghemba (non c'era niente da fare) in un raro momento di ozio, con la mia barboncina Tova, allora già incanutita.