Cinque dicembre (L'amore telematico)
Il treno corre, i sobbalzi sui binari da ore vanno a ritmo con il mio respiro agitato, di questo passo mi verrà un infarto, lo sento. Case e campi saettano là fuori, per me sono solo macchie di colore, e poi il nero della notte. Non riesco a pensare a niente, in testa e nel petto e in pancia ho un unico grosso grumo di panico indistinto.
Non mi piace raccontare bugie, non ne sono capace, ma per poter venire qui da te, per passare con te poche ore di rapina, ne ho inventata una goffissima, assurda, disperata, una di quelle bugie che meriterebbero una punizione divina (e forse l’avranno, sotto forma di un malanno di stagione, ma assai virulento).
Entriamo in stazione, ho il naso incollato al finestrino. Mi coglie a tradimento la paura di non vederti, di passarti davanti senza riconoscerti, pensa che atroce delusione, sarebbe. E all’improvviso eccoti lì sulla banchina, mi corri incontro tra la folla con l’aria di essere ancora più smarrito di me: che cretina, che paura inutile, ti avrei riconosciuto in mezzo a mille altri, sei come nella foto che mi hai mandato quasi subito, facendomi venire il sospetto che fossi un po’ vanesio.
Sembri solo più piccolo, meno freddo, più bambino, quasi. Vivo, anche, non congelato in quello scatto artistico che ti dava un’aria da bel tenebroso, quell’aria che all’inizio non mi era piaciuta affatto. E anche la maglia a collo alto nera sui pantaloni neri, te lo dico ora dopo quasi dieci anni, l’avevo trovata brutta e troppo seria, sembravi Giorgio Strehler che mi è sempre stato antipatico. Oppure uno strangolatore di donne conosciute su internet, come mi aveva fatto notare, con poco tatto, un’amica, gettando l'occhio sulla mia scrivania. Però lo aveva detto per affetto, si vedeva che era preoccupata davvero.
Scendo dal vagone, mi vieni incontro, mi hai riconosciuta anche tu. Non so come salutarti, non so cosa dirti, uno strano imbarazzatissimo ammutolente blackout dopo dieci mesi di parole entrate sempre più impetuose nella mia e nella tua posta elettronica. Parole sulle quali abbiamo camminato come equilibristi principianti, terrorizzati all’idea che quel filo lungo centinaia di chilometri – e tessuto assolutamente dal caso, come in un romanzo rosa, roba da far impallidire Rosamunde Pilcher – si rompesse, o che si potesse cadere di sotto, facendoci del male. All’inizio facevamo anche un po’ ridere, quando non ci conoscevamo affatto e tu mi davi del lei, cercavi con il mio aiuto una rivista introvabile, scrivevi grazie-prego-lei è davvero gentile, e io ti credevo un vecchio signore molto pignolo.
Dopo due settimane di scambi educati – com'erano scattati, non lo ricordo proprio – non c’era più nulla di quella cortesia ingessata, ma c’erano un sacco di domande sfrontate. Altro che vecchio signore, eri un folletto dispettoso, furbetto, ficcanaso e seducente. Chi sei, cosa fai, come sei, come vivi. Che cavolo ci fai in ufficio alle 8 del mattino, il 25 aprile, vabbé che sei di Milano e lavorate sempre...
Un saluto, tutte le mattine. Un saluto tutte le sere. Un saluto a metà pomeriggio. I fine settimana lontani dal computer che improvvisamente parevano eterni – come era mai possibile. Mi alzavo di notte vagando per casa, inquieta, e il giorno dopo aprendo la posta scoprivo che anche tu eri stato sveglio e mi avevi scritto a ore impossibili. Colpa delle zanzare, dicevi tu, quelle cornute. Colpa del caldo, mi rassicuravo io, che non volevo ammettere.
E poi la scoperta drammatica di avere bisogno di questo saluto.
Se parti come faccio, starò male. Se non mi scrivi mentre sei via ti spezzo le braccine. Sei cattiva.
No, sei tu che sei stupido.
Pensavo ti fosse caduto l’aereo e per quello non mi avevi scritto.
Pensavo che fossi caduto dalla moto e per quello non mi avevi scritto (tu e quella tua accidenti di moto, avrei preferito incazzarmi pensando che non ti fossi fatto vivo apposta, che non angustiarmi immaginandoti riverso a bordo strada).
E la paura e lo sgomento di quello che stava succedendo – ancora non si usava, non pareva normale, una cosa da malati.
Non possiamo, lo sai che non possiamo vederci.
Non ti voglio più sentire, non si può vivere così, è assurdo, sei un fantasma e mi stai facendo ammattire di nostalgia e desiderio.
Va bene, ti prometto che prima o poi ci incontriamo, ma poi giura che non finisce mai, che non ci perdiamo, è troppo bello quello che abbiamo io e te.
Ho buttato la tua foto e tutte le tue lettere e anche il numero di telefono, perché ero incazzata, volevo cancellarti dai miei pensieri ma non ha funzionato.
Ma la pianti di buttare le cose che ti mando? Sei una brutta peste, sei un vulcanetto, adesso vado in posta e rispedisco tutto, ma guarda che è davvero l’ultima volta...
Dieci mesi infiniti.
E intanto con le tue mani leggere, senza mai toccarmi mi frugavi dentro e riuscivi a farmi dire verità mai confessate prima. Mi piaceva e mi terrorizzava: ho capito solo molto tempo dopo che non mi avresti mai fatto del male. Ogni tanto dopo ti ho sognato, nei momenti difficili, mi stringevo e mi baciavi gentilmente sulla fronte e quando mi svegliavo ripensavo con stupore e tenerezza ai terrori di un tempo. Una notte ho sognato che per incontrarci percorrevamo strade di campagna piene di neve appena caduta, c'era una luce intensa, bellissima.
Ti obbedivo, io che non obbedisco mai a nessuno. Un giorno in montagna ho fatto dieci chilometri sotto la pioggia, perché tu volevi un messaggio per essere sicuro che ti stessi pensando. Come se fosse stato possibile il contrario, come se non fosse stato vero che non pensavo ad altro. Correvo sotto il temporale con il battito a mille e mi sentivo deficiente ma anche felice. L’internet point oltretutto era chiuso e mi era toccato tornarci il pomeriggio dopo, che però almeno non diluviava.
I nostri giochi assurdi. Facciamo che io sono il maestro e tu la scolaretta, quindi stai attenta altrimenti ti punisco a sculaccioni e ricordati le calzette bianche. Facciamo che tu eri un’ostrica surgelata e io ti dovevo aprire con un coltello, però piano piano. Facciamo che tu sei una pecora stupida su un’isola della Patagonia. Facciamo che io ero uno sciamano e tu una donna crudele degli altipiani. Ti sei sempre tenuto i ruoli più divertenti, non so se vale. Non ho mai comandato, neanche una volta.
Ora sei qui davanti a me. E io mi rendo conto che so che film ti piacciono, cosa leggi (non andiamo mai d’accordo, sei affascinato dai complotti mondiali, io li detesto: e poi tu sei mistico e io materialista terra-terra, per mesi hai cercato di spiegarmi il segreto di Fatima, poi ti sei arreso alla mia ottusità e al mio palese disinteresse), so cosa sogni, come sono nere le tue giornate nere, quanto puoi essere triste, ma non so che odore hai, se strizzi gli occhi quando ti spaventi, non so come cammini. Non so nemmeno come salutarti, dopo tutto quello che ci siamo detti al riparo di uno schermo.
Mi passi un braccio attorno alle spalle, mi guidi tra la folla. Fatto buon viaggio? Sì, grazie. In metropolitana sento la tua gamba contro la mia e penso che ci sei, esisti davvero, è incredibile, sei anche caldino nel freddo della sera d’inverno. Per l’emozione non guardiamo i cartelli, sbagliamo strada, finiamo chissà dove, in periferia, prima di recuperare un barlume di lucidità.
Al ristorante sembriamo due giocatori di scacchi. Io guardo te e tu guardi me. So che sei attento ai piccoli gesti, me l’hai scritto una volta – le persone le passi al microscopio – e mi chiedo ansiosamente cosa ti dica di me il mio modo di prendere il cestino del pane o di girare l’insalata. Questo mi paralizza al punto che l’insalata me la giri tu, un po’ divertito, dopo avermi vista far volare in giro per tutto il tavolo brandelli di spinaci e briciole di feta. Hai degli occhi bellissimi e io mi vergogno come una ladra perché ho i capelli troppo corti e sto da schifo, cosa mi è venuto in mente di andare dal parrucchiere ieri, tanto valeva partecipare a una roulette russa. In compenso sono magra perché da settimane, dopo che ci siamo dati appuntamento, corro come un'ossessa sul tapis roulant per placare la tensione.
Torniamo a casa tua. Accendiamo la televisione, seduti sul divano. A distanza di sicurezza, venti-trenta centimetri. Le immagini scorrono sullo schermo, ma non le vedo neanche. I sentimenti di questi mesi, attrazione e terrore, provocano un invisibile uragano. Forse muoio di crepacuore su questo divano. Forse resto qui impalata e muta tutta la notte e poi vivo il resto della vita nel rimpianto più lancinante per non averti neppure toccato. Forse non ti piaccio e ci siamo raccontati un mucchio di fesserie, per tutto questo tempo: la più crudele delle illusioni, la ferocia della realtà. Qualcuno metta fine a questa tortura.
Cosa si dice in queste situazioni? Mi viene in mente solo una frase disperatamente stupida, tanto per dire. Che ti eri descritto castano e ti trovo scuro scuro. Mi chiedi, sempre fissando lo schermo, se per caso ho delle altre lamentele da avanzare, altre proteste. Sarebbe un’osservazione scherzosa, ma anche tu sembri uno stoccafisso, questa è una lotta a chi è più in difficoltà. E all’improvviso non so come le nostre dita si trovano vicine, con l’indice ti sfioro il pollice, poi il fianco, appena appena, come volessi passare inosservata. E tu scivoli subito sul divano, gli occhi chiusi di chi aspetta, maledetto folletto dispettoso, hai fatto fare tutto a me, tutti i rischi a me, ancora una volta, come avevi minacciato.
E sapessi come sarebbe più facile, se in questi mesi non ti avessi lasciato avvicinare così tanto, se tu fossi un perfetto sconosciuto da prendere e lasciare in un gioco spensierato. Invece sei tu. Ti accarezzo piano la pancia, ti bacio la pelle dove sei liscio, e poi più giù, mentre tu trattieni il fiato. Ti sollevi di scatto, mi prendi per mano e mi dici “Andiamo di là”. Le tue dita sono intrecciate alle mie, in una stretta forte, fa quasi male.
Lo vuoi?
Sì, lo voglio.
Dimmelo.
Lo voglio. E voglio che le mie dita e le mie labbra ti imparino a memoria, per tenerti vicino quando tra poco non ci sarai più.
Il tempo prende una strana accelerazione e tu ti trasformi in un lupo avido, quasi feroce. Ma io non ho più paura. Facciamo che tu eri un lupo e io una pecora e tu mi mangiavi. È un gioco bellissimo, anche se dà dolore e ci lascia sfiniti, come vuoti. Siamo caduti dal filo, un po’ inebetiti.
Adesso cerco di dormire. Non posso, perché tu continui a chiedermi a che penso.
Non penso a niente, ti dico.
Dai, non è possibile che tu non stia pensando a niente, fin da qui sento le rotelle del tuo cervello che fanno frrrrrrrrrrrrrrrrr. Dimmi che cosa pensi, lo voglio sapere assolutamente. Dimmi che cosa provi.
Come faccio a dirti cosa penso, che cosa provo? Penso che tra poco è mattina e non voglio che lo sia. Penso che sono un po’ innamorata di te, anche se è vietato anche solo pensarlo (la legge l’hai fatta tu, tanto per cambiare, ma io ero d’accordo, l’ho firmata senza protestare). Penso che ti vorrei chiedere che cosa provi tu, ma la domanda non è ammessa e io sono ligia ai regolamenti e tanto non mi risponderesti, e alla fine poi che cosa importa, cosa cambia, renderebbe tutto più difficile. Penso che è meglio godersi il qui e ora, il tuo braccio che mi tiene stretta, la mia mano che riposa sulla tua pancia piatta ma morbida, buona.
Il sonno è leggero, agitato. Ti svegli e dici che hai mal di schiena, lo mugugni nel cuscino. Ti massaggio un poco. Smetti di lamentarti e ti viene la voce da lupo: per favore non ti fermare, non ti fermare, continua a toccarmi, girati, ti prego, girati, vieni qui. Facciamo di nuovo l’amore poi guardi l’orologio e dici: oh cazzo, dobbiamo alzarci, ma proprio così presto dovevi partire? Sì, lo ammetto, ho scelto un treno quasi antelucano per tenermi una via di fuga.
Colazione a testa bassa. Non so dove guardare. Ho paura a guardarti negli occhi, perché ancora non li so leggere – ci vorranno del tempo e un animo liberato dal magone del commiato – e tu sei così bravo a fare la sfinge. Ho paura a pensare che è tutto finito. Non sono più capace di parlarti. Non sono capace di immaginare come si può andare avanti, adesso che abbiamo scoperto che io esisto e tu esisti. Non si potrà più ridere, non si potrà più scherzare. Guardo le tue mani piene di lentiggini e penso che è l’ultima volta che le vedo. Vorrei accarezzartele, ma mi manca il coraggio, e poi sarebbe uno strazio ancora peggiore. Ti scusi perché il tè fa schifo (è vero, anche se per educazione dico di no).
Mi accompagni in stazione trincerato dietro un paio di incredibili occhiali neri, incongrui nel primo mattino invernale. Un abbraccio rigidissimo. Facciamo che tu eri un’ostrica surgelata e io ti bacio la guancia e ti dico addio per sempre.
Salgo sul treno. Per sempre. Finito. Finito per sempre. Questo dicono i sobbalzi. Mi addormento. Non sto male, è come se mi avessero fatto l’anestesia ai sentimenti: ma penso che prima o poi mi sveglierò e starò da cani e non potrò neanche dirtelo, perché non ci sarai più. Invece a metà strada mi sveglia lo squillo del telefonino. Sei tu. Come stai? Stai bene? Mi scrivi, giura che mi scrivi appena arrivi.
Lo vedi? Ti scrivo anche adesso, dopo tanti anni: non ci siamo mai persi, mai. Avevo ragione io, ecco, ammettilo per una volta. Ho perfino imparato a dirti che ti voglio bene senza timore di essere sbranata, e l’hai imparato anche tu, incredibile. Forse hai ragione quando mi dici ridendo che io ho la testa dura, penso troppo e non dimentico mai niente, neanche se lo voglio.
Non mi piace raccontare bugie, non ne sono capace, ma per poter venire qui da te, per passare con te poche ore di rapina, ne ho inventata una goffissima, assurda, disperata, una di quelle bugie che meriterebbero una punizione divina (e forse l’avranno, sotto forma di un malanno di stagione, ma assai virulento).
Entriamo in stazione, ho il naso incollato al finestrino. Mi coglie a tradimento la paura di non vederti, di passarti davanti senza riconoscerti, pensa che atroce delusione, sarebbe. E all’improvviso eccoti lì sulla banchina, mi corri incontro tra la folla con l’aria di essere ancora più smarrito di me: che cretina, che paura inutile, ti avrei riconosciuto in mezzo a mille altri, sei come nella foto che mi hai mandato quasi subito, facendomi venire il sospetto che fossi un po’ vanesio.
Sembri solo più piccolo, meno freddo, più bambino, quasi. Vivo, anche, non congelato in quello scatto artistico che ti dava un’aria da bel tenebroso, quell’aria che all’inizio non mi era piaciuta affatto. E anche la maglia a collo alto nera sui pantaloni neri, te lo dico ora dopo quasi dieci anni, l’avevo trovata brutta e troppo seria, sembravi Giorgio Strehler che mi è sempre stato antipatico. Oppure uno strangolatore di donne conosciute su internet, come mi aveva fatto notare, con poco tatto, un’amica, gettando l'occhio sulla mia scrivania. Però lo aveva detto per affetto, si vedeva che era preoccupata davvero.
Scendo dal vagone, mi vieni incontro, mi hai riconosciuta anche tu. Non so come salutarti, non so cosa dirti, uno strano imbarazzatissimo ammutolente blackout dopo dieci mesi di parole entrate sempre più impetuose nella mia e nella tua posta elettronica. Parole sulle quali abbiamo camminato come equilibristi principianti, terrorizzati all’idea che quel filo lungo centinaia di chilometri – e tessuto assolutamente dal caso, come in un romanzo rosa, roba da far impallidire Rosamunde Pilcher – si rompesse, o che si potesse cadere di sotto, facendoci del male. All’inizio facevamo anche un po’ ridere, quando non ci conoscevamo affatto e tu mi davi del lei, cercavi con il mio aiuto una rivista introvabile, scrivevi grazie-prego-lei è davvero gentile, e io ti credevo un vecchio signore molto pignolo.
Dopo due settimane di scambi educati – com'erano scattati, non lo ricordo proprio – non c’era più nulla di quella cortesia ingessata, ma c’erano un sacco di domande sfrontate. Altro che vecchio signore, eri un folletto dispettoso, furbetto, ficcanaso e seducente. Chi sei, cosa fai, come sei, come vivi. Che cavolo ci fai in ufficio alle 8 del mattino, il 25 aprile, vabbé che sei di Milano e lavorate sempre...
Un saluto, tutte le mattine. Un saluto tutte le sere. Un saluto a metà pomeriggio. I fine settimana lontani dal computer che improvvisamente parevano eterni – come era mai possibile. Mi alzavo di notte vagando per casa, inquieta, e il giorno dopo aprendo la posta scoprivo che anche tu eri stato sveglio e mi avevi scritto a ore impossibili. Colpa delle zanzare, dicevi tu, quelle cornute. Colpa del caldo, mi rassicuravo io, che non volevo ammettere.
E poi la scoperta drammatica di avere bisogno di questo saluto.
Se parti come faccio, starò male. Se non mi scrivi mentre sei via ti spezzo le braccine. Sei cattiva.
No, sei tu che sei stupido.
Pensavo ti fosse caduto l’aereo e per quello non mi avevi scritto.
Pensavo che fossi caduto dalla moto e per quello non mi avevi scritto (tu e quella tua accidenti di moto, avrei preferito incazzarmi pensando che non ti fossi fatto vivo apposta, che non angustiarmi immaginandoti riverso a bordo strada).
E la paura e lo sgomento di quello che stava succedendo – ancora non si usava, non pareva normale, una cosa da malati.
Non possiamo, lo sai che non possiamo vederci.
Non ti voglio più sentire, non si può vivere così, è assurdo, sei un fantasma e mi stai facendo ammattire di nostalgia e desiderio.
Va bene, ti prometto che prima o poi ci incontriamo, ma poi giura che non finisce mai, che non ci perdiamo, è troppo bello quello che abbiamo io e te.
Ho buttato la tua foto e tutte le tue lettere e anche il numero di telefono, perché ero incazzata, volevo cancellarti dai miei pensieri ma non ha funzionato.
Ma la pianti di buttare le cose che ti mando? Sei una brutta peste, sei un vulcanetto, adesso vado in posta e rispedisco tutto, ma guarda che è davvero l’ultima volta...
Dieci mesi infiniti.
E intanto con le tue mani leggere, senza mai toccarmi mi frugavi dentro e riuscivi a farmi dire verità mai confessate prima. Mi piaceva e mi terrorizzava: ho capito solo molto tempo dopo che non mi avresti mai fatto del male. Ogni tanto dopo ti ho sognato, nei momenti difficili, mi stringevo e mi baciavi gentilmente sulla fronte e quando mi svegliavo ripensavo con stupore e tenerezza ai terrori di un tempo. Una notte ho sognato che per incontrarci percorrevamo strade di campagna piene di neve appena caduta, c'era una luce intensa, bellissima.
Ti obbedivo, io che non obbedisco mai a nessuno. Un giorno in montagna ho fatto dieci chilometri sotto la pioggia, perché tu volevi un messaggio per essere sicuro che ti stessi pensando. Come se fosse stato possibile il contrario, come se non fosse stato vero che non pensavo ad altro. Correvo sotto il temporale con il battito a mille e mi sentivo deficiente ma anche felice. L’internet point oltretutto era chiuso e mi era toccato tornarci il pomeriggio dopo, che però almeno non diluviava.
I nostri giochi assurdi. Facciamo che io sono il maestro e tu la scolaretta, quindi stai attenta altrimenti ti punisco a sculaccioni e ricordati le calzette bianche. Facciamo che tu eri un’ostrica surgelata e io ti dovevo aprire con un coltello, però piano piano. Facciamo che tu sei una pecora stupida su un’isola della Patagonia. Facciamo che io ero uno sciamano e tu una donna crudele degli altipiani. Ti sei sempre tenuto i ruoli più divertenti, non so se vale. Non ho mai comandato, neanche una volta.
Ora sei qui davanti a me. E io mi rendo conto che so che film ti piacciono, cosa leggi (non andiamo mai d’accordo, sei affascinato dai complotti mondiali, io li detesto: e poi tu sei mistico e io materialista terra-terra, per mesi hai cercato di spiegarmi il segreto di Fatima, poi ti sei arreso alla mia ottusità e al mio palese disinteresse), so cosa sogni, come sono nere le tue giornate nere, quanto puoi essere triste, ma non so che odore hai, se strizzi gli occhi quando ti spaventi, non so come cammini. Non so nemmeno come salutarti, dopo tutto quello che ci siamo detti al riparo di uno schermo.
Mi passi un braccio attorno alle spalle, mi guidi tra la folla. Fatto buon viaggio? Sì, grazie. In metropolitana sento la tua gamba contro la mia e penso che ci sei, esisti davvero, è incredibile, sei anche caldino nel freddo della sera d’inverno. Per l’emozione non guardiamo i cartelli, sbagliamo strada, finiamo chissà dove, in periferia, prima di recuperare un barlume di lucidità.
Al ristorante sembriamo due giocatori di scacchi. Io guardo te e tu guardi me. So che sei attento ai piccoli gesti, me l’hai scritto una volta – le persone le passi al microscopio – e mi chiedo ansiosamente cosa ti dica di me il mio modo di prendere il cestino del pane o di girare l’insalata. Questo mi paralizza al punto che l’insalata me la giri tu, un po’ divertito, dopo avermi vista far volare in giro per tutto il tavolo brandelli di spinaci e briciole di feta. Hai degli occhi bellissimi e io mi vergogno come una ladra perché ho i capelli troppo corti e sto da schifo, cosa mi è venuto in mente di andare dal parrucchiere ieri, tanto valeva partecipare a una roulette russa. In compenso sono magra perché da settimane, dopo che ci siamo dati appuntamento, corro come un'ossessa sul tapis roulant per placare la tensione.
Torniamo a casa tua. Accendiamo la televisione, seduti sul divano. A distanza di sicurezza, venti-trenta centimetri. Le immagini scorrono sullo schermo, ma non le vedo neanche. I sentimenti di questi mesi, attrazione e terrore, provocano un invisibile uragano. Forse muoio di crepacuore su questo divano. Forse resto qui impalata e muta tutta la notte e poi vivo il resto della vita nel rimpianto più lancinante per non averti neppure toccato. Forse non ti piaccio e ci siamo raccontati un mucchio di fesserie, per tutto questo tempo: la più crudele delle illusioni, la ferocia della realtà. Qualcuno metta fine a questa tortura.
Cosa si dice in queste situazioni? Mi viene in mente solo una frase disperatamente stupida, tanto per dire. Che ti eri descritto castano e ti trovo scuro scuro. Mi chiedi, sempre fissando lo schermo, se per caso ho delle altre lamentele da avanzare, altre proteste. Sarebbe un’osservazione scherzosa, ma anche tu sembri uno stoccafisso, questa è una lotta a chi è più in difficoltà. E all’improvviso non so come le nostre dita si trovano vicine, con l’indice ti sfioro il pollice, poi il fianco, appena appena, come volessi passare inosservata. E tu scivoli subito sul divano, gli occhi chiusi di chi aspetta, maledetto folletto dispettoso, hai fatto fare tutto a me, tutti i rischi a me, ancora una volta, come avevi minacciato.
E sapessi come sarebbe più facile, se in questi mesi non ti avessi lasciato avvicinare così tanto, se tu fossi un perfetto sconosciuto da prendere e lasciare in un gioco spensierato. Invece sei tu. Ti accarezzo piano la pancia, ti bacio la pelle dove sei liscio, e poi più giù, mentre tu trattieni il fiato. Ti sollevi di scatto, mi prendi per mano e mi dici “Andiamo di là”. Le tue dita sono intrecciate alle mie, in una stretta forte, fa quasi male.
Lo vuoi?
Sì, lo voglio.
Dimmelo.
Lo voglio. E voglio che le mie dita e le mie labbra ti imparino a memoria, per tenerti vicino quando tra poco non ci sarai più.
Il tempo prende una strana accelerazione e tu ti trasformi in un lupo avido, quasi feroce. Ma io non ho più paura. Facciamo che tu eri un lupo e io una pecora e tu mi mangiavi. È un gioco bellissimo, anche se dà dolore e ci lascia sfiniti, come vuoti. Siamo caduti dal filo, un po’ inebetiti.
Adesso cerco di dormire. Non posso, perché tu continui a chiedermi a che penso.
Non penso a niente, ti dico.
Dai, non è possibile che tu non stia pensando a niente, fin da qui sento le rotelle del tuo cervello che fanno frrrrrrrrrrrrrrrrr. Dimmi che cosa pensi, lo voglio sapere assolutamente. Dimmi che cosa provi.
Come faccio a dirti cosa penso, che cosa provo? Penso che tra poco è mattina e non voglio che lo sia. Penso che sono un po’ innamorata di te, anche se è vietato anche solo pensarlo (la legge l’hai fatta tu, tanto per cambiare, ma io ero d’accordo, l’ho firmata senza protestare). Penso che ti vorrei chiedere che cosa provi tu, ma la domanda non è ammessa e io sono ligia ai regolamenti e tanto non mi risponderesti, e alla fine poi che cosa importa, cosa cambia, renderebbe tutto più difficile. Penso che è meglio godersi il qui e ora, il tuo braccio che mi tiene stretta, la mia mano che riposa sulla tua pancia piatta ma morbida, buona.
Il sonno è leggero, agitato. Ti svegli e dici che hai mal di schiena, lo mugugni nel cuscino. Ti massaggio un poco. Smetti di lamentarti e ti viene la voce da lupo: per favore non ti fermare, non ti fermare, continua a toccarmi, girati, ti prego, girati, vieni qui. Facciamo di nuovo l’amore poi guardi l’orologio e dici: oh cazzo, dobbiamo alzarci, ma proprio così presto dovevi partire? Sì, lo ammetto, ho scelto un treno quasi antelucano per tenermi una via di fuga.
Colazione a testa bassa. Non so dove guardare. Ho paura a guardarti negli occhi, perché ancora non li so leggere – ci vorranno del tempo e un animo liberato dal magone del commiato – e tu sei così bravo a fare la sfinge. Ho paura a pensare che è tutto finito. Non sono più capace di parlarti. Non sono capace di immaginare come si può andare avanti, adesso che abbiamo scoperto che io esisto e tu esisti. Non si potrà più ridere, non si potrà più scherzare. Guardo le tue mani piene di lentiggini e penso che è l’ultima volta che le vedo. Vorrei accarezzartele, ma mi manca il coraggio, e poi sarebbe uno strazio ancora peggiore. Ti scusi perché il tè fa schifo (è vero, anche se per educazione dico di no).
Mi accompagni in stazione trincerato dietro un paio di incredibili occhiali neri, incongrui nel primo mattino invernale. Un abbraccio rigidissimo. Facciamo che tu eri un’ostrica surgelata e io ti bacio la guancia e ti dico addio per sempre.
Salgo sul treno. Per sempre. Finito. Finito per sempre. Questo dicono i sobbalzi. Mi addormento. Non sto male, è come se mi avessero fatto l’anestesia ai sentimenti: ma penso che prima o poi mi sveglierò e starò da cani e non potrò neanche dirtelo, perché non ci sarai più. Invece a metà strada mi sveglia lo squillo del telefonino. Sei tu. Come stai? Stai bene? Mi scrivi, giura che mi scrivi appena arrivi.
Lo vedi? Ti scrivo anche adesso, dopo tanti anni: non ci siamo mai persi, mai. Avevo ragione io, ecco, ammettilo per una volta. Ho perfino imparato a dirti che ti voglio bene senza timore di essere sbranata, e l’hai imparato anche tu, incredibile. Forse hai ragione quando mi dici ridendo che io ho la testa dura, penso troppo e non dimentico mai niente, neanche se lo voglio.