Un pezzo di cielo blu cobalto, un triangolo bianco e accecante che non pareva aver mai fine, invece a un certo punto finiva, grazie al cielo e nel cielo medesimo. Se sollevavo gli occhi, inclinando con molta cautela il collo, e soffiavo via la frangia, vedevo tutto questo e poi due suole di scarponi irte di punte, impegnate in un balletto ritmico ed elegante: toc, toc, toc, toc, un rumore croccante, rassicurante, alternato agli schiocchi della piccozza. Punta, punta, esci, esci, punta, punta, sempre più su, un passo dopo l’altro.
Ogni tanto passavano piccole candide nuvole estive, batuffoli innocui e leggiadri, proprio un’iconografia da paradiso, adattissima, perché io stavo trotterellando, su pendenze per me abitualmente improponibili, dietro a Dio.
Beata innocenza, dolce fiducia in Dio: la fede.
Guardavo quei ramponi che si allontavano da me a ogni tiro, e non mi sfiorava il dubbio – neanche uno piccolo piccolo – che Dio sarebbe potuto scivolare, che quelle punte triangolari d’acciaio avrebbero potuto conficcarsi per bene nelle mie carni come denti di squalo, e che infine saremmo piombati lungo il canale di neve indurita e ghiaccio, finalmente abbracciati, peccato quei trecento metri o giù di lì prima di arrivare nella posizione orizzontale a lungo sognata.
Dio era Dio, e Dio – lo sanno tutti – usa da Dio i ramponi. Dio non incespica, Dio non si rampona l'orlo dei calzoni, Dio non fa quelle pirlate che fanno i comuni mortali.
Adesso che ci ripenso, non controllavo neppure di essere in sicura, e se le viti da ghiaccio Dio le mettesse davvero o facesse solo finta, come lui e un altro suo socio avevano fatto varie volte, in un lontano passato, con un nostro collega paurosissimo.
La chiamavano la "sicura psicologica", quei due sciagurati, e consisteva nel passare una corda nel moschettone in sosta, senza la seccatura di nodi o altri vizi borghesi da rammolliti. Un giorno il collega era inciampato mentre risaliva facili roccette in Grignetta, la corda si era srotolata allegramente per parecchi metri prima che i due riuscissero a bloccarla, la vittima per poco non era morta di spavento – in montagna non ci era più andato, e ogni volta che si nominava una qualunque cima strabuzzava gli occhi ed emetteva lugubri profezie.
Era, per fortuna, un periodo in cui mi facevo poche domande, e soprattutto non mi facevo domande che avrebbero potuto avere risposte imbarazzanti. Tipo: che cosa ci faccio qui, con il naso appiccicato alla neve indurita di un canale chiuso tra le rocce, e i polpacci indolenziti dal balletto sulle punte? Oppure: il legame in una cordata è sempre una cosa sana da montanari, solidale, o nasconde indicibili pulsioni oscure? In altre parole, non avevo ancora capito che Dio era un sadico raffinato, che dopo anni di attesa aveva trovato la vittima perfetta per i suoi esperimenti di potere: poca stima di sé, figure genitoriali assenti e soprattutto disperatamente innamorata di lui.
Dio era un tipo solitario, ai maschi sotto sotto piaceva poco perché lo trovavano altero. In effetti si esprimeva a monosillabi borbottati, e aveva un’espressione molto spesso disgustata. Non sorrideva quasi mai, più che altro faceva un ghigno sofferto del tutto privo di allegria. Con me ogni tanto scoppiava in una breve risatina nervosa di difficile interpretazione. Alle donne invece piaceva parecchio perché quella cupezza muta aveva un suo fascino – era un uomo di vasta e profonda cultura – e infine era anche piuttosto bello. Con le donne comunque era altero il triplo, un ghiacciolo. (Ora non più, invecchiando è molto migliorato: sembra quasi normale, gli è passata anche la cupio dissolvi che lo portava a cercare la morte in imprese solitarie).
All’inizio non avevo colto il pericolo incombente. “Ti piace andare in montagna?” era stata la prima domanda che mi avevano rivolto mentre mi aggiravo timorosissima tra le scrivanie del giornale, vergognandomi come una ladra delle mie origini borghesi. Anzi, era andata così, che mi avevano chiesto che tipo di associazioni avessi frequentato, e io maledicendomi per non aver mai messo piede nella sezione del partito vicino a casa mia – d’altra parte non aveva una buona fama, perché era in centro a Milano e dunque sospetta di radical chic: si chiamava Perotti-Devani e tutti la chiamavano Salotti & Divani – avevo detto di essere iscritta alla scuola Italia-Urss e poi (più a bassa voce) al Cai. “Meglio il Cai, l’Urss lasciamola perdere”, mi avevano detto. Come pezzo di prova, accolsero la mia proposta di scrivere di una gitarella nel lecchese, per le pagine domenicali.
La relazione della modesta ascensione sulla vetta del Cornizzolo piacque.
Fu così che mi ficcai nei guai fin dall’inizio.
Non c’era un vero e proprio Cral aziendale, ma un’associazione a delinquere di stampo alpinistico. Da anni non assumevano nessuno, e dunque non avevano più malcapitati ignari su cui infierire con le attività dopolavoristiche. Mi accolsero come lupi ansiosi di papparsi Cappuccetto Rosso, e io abboccai, del tutto inconsapevole delle dinamiche diaboliche di quell’alpinismo tragicamente maschio e proletario, segretamente competitivo.
La regola numero uno era che non si facevano passeggiate. O si scalava, o si scarpinava. Per l’escursionismo esistevano solo due montagne: il Resegone (dal ripido, scomodo canalone della Valnegra) o il Grignone (davanti o dietro, tanto era comunque una cammellata infinita).
La regola numero due era che si faceva tutto in fretta e furia, perché poi si andava a lavorare e a guardar le pagine in tipografia.
La regola numero tre è che non si mangiava e non si beveva, e non si facevano soste. Mai. A meno di non simulare malori di una certa entità (però avevo paura a farlo, perché già mi vedevo marchiata: borghese, molle e viziata). Un giorno io e Dio camminavamo da un paio d'ore nella neve e io presi coraggio e rallentai impercettibilmente il passo in modo da restare indietro di una ventina di metri, e appena al riparo di un avvallamento carsico mi ficcai la mano in tasca per azzannare di nascosto un brandello di pane e mortadella. Dio però vede tutto e si girò, scandalizzato: "Ma che fai, mangi?". Per poco non morii soffocata dal pane e dai sensi di colpa.
La regola numero quattro non era esplicitata ma era la più perniciosa, perché diceva che se facevi qualcosa di impegnativo con un capobranco, poi ti toccava giocare al rialzo con l’altro. Era un’escalation di salite.
Dopo un po’ apparve chiaro che c’era una rivalità spaventosa tra i due più forti alpinisti della redazione, Dio e un altro. Ma mentre l’altro agiva alla luce del sole, Dio lavorava in clandestinità, proponendomi gite tete-a-tete, di nascosto, neanche fossero stati convegni amorosi segreti. Io obbedivo ciecamente, con devozione bovina.
Era una situazione eccitante e al tempo stesso terrorizzante. I miei capi erano quasi tutti uomini di mezza età, con desideri nascosti e insoddisfatti di paternità, che riversavano sui nuovi venuti: solo che più che padri benevoli parevano dèi dell’Olimpo, capricciosi, iracondi, gelosi l’uno dell’altro, capaci di atroci vendette. Quando io e Dio tornavamo dalle nostre gite, facendo finta di nulla, lui si beccava occhiatacce e io delle scenate per futili motivi.
Andò avanti un anno, era sempre peggio. Dio un pomeriggio mi si avvicinò in silenzio e mi sibilò: “Vai a casa a fare lo zaino. Piccozza e ramponi. La Brenva è in condizioni”.
Mi toccò fuggire dalla redazione, dovevo ancora scrivere un articolo, lo scrissi in macchina su un pezzo di carta, uno dei capi mi inseguì urlando nel cortile, incazzato nero. Arrivai a Courmayeur che già stavo vomitando per il terrore di perdere il posto al giornale (che ancora ufficialmente non avevo avuto), telefonai il pezzo, mi trascinai non so come al Ghiglione aggrappandomi a dei cavi di acciaio e superando una terminale da colpo apoplettico, e caddi esanime sul colle. Il rifugio pencolava sinistramente verso il ghiacciaio della Brenva – i cavi stavano cedendo – i crepacci erano fauci nerastre spalancate sotto il terrazzo, il tetto perdeva e faceva così freddo che il pavimento della sala da pranzo era pieno di ghiaccio e io ci piantai un volo rovinoso, sotto gli occhi prima attoniti poi compassionevoli di due cordate di polacchi.
Fu una notte atroce. Mi pareva di essere Maria Goretti, però all’incontrario. Il sesso sarebbe stato perfetto, era morire che mi scocciava. Va bene l’amore, ma nessun amore mi avrebbe sospinta su per lo Sperone della Brenva, in mezzo a seracchi di dimensioni colossali e paretine di ghiaccio da cardiopalmo. Appena partiti dal rifugio infilai al buio la gamba in un buco probabilmente infinito, supplicai la grazia della rinuncia alla vetta e l’ottenni sentendomi un verme, un'inetta, una vile, una codarda, una spazzatura umana indegna di Dio.
Non si poteva andare avanti così. Anche l’amore non corrisposto, anche l’amore sadomaso (ma ancora non sapevo che fosse sadomaso) ha i suoi limiti. Facevo una fatica terribile, eravamo sempre insieme, e manco una carezza, solo quei risolini che non capivo se mi considerasse divertente o un caso umano perché nelle mie mani le mie corde si aggrovigliavano per magia e arrampicavo gemendo e aggrappandomi come una scimmietta a qualunque cosa sporgesse dalle pareti: alberi, chiodi, rinvii, piedi di alpinisti di altre cordate.
Alla fine forzai la situazione, con la disperazione dell’ingenuità. Fu un errore tremendo o forse la salvezza. Gli feci, lavorandoci di notte, un maglione norvegese stile tragedia del Pilone Centrale. Un maglione orribile, informe, rosso bandiera, vistosissimo e spesso come un materasso, con le maniche che partivano larghissime e si fermavano a metà avambraccio, con effetto laccio emostatico. Nel pacco infilai una letterina, ne ho rimosso il contenuto, non voglio ricordare, mi rifiuto. Entrai in punta di piedi nel suo ufficio, glielo posai sulla scrivania e fuggii.
Non ci fu alcuna reazione. Zero. Nada de nada. E lì si vide che magari per amore ero disposta a fare sforzi sovrumani, ma non ero disposta ad “azzerare” la mia dignità.
Il giorno dopo andai da lui con gli occhi gonfi di lacrime ma decisa a non singhiozzare: “Non sono un cane e non puoi trattarmi come un cane” dissi, ricacciando indietro il pianto, e uscii il più dignitosamente possibile senza voltarmi. Lui rimase lì senza saper che dire, anche perché poco prima a mia insaputa era passato uno dei miei padri adottivi, che aveva capito tutto, insultandolo a sangue e minacciando di picchiarlo.
Non gli parlai per un mese, lui a quel punto mi seguiva ovunque. Appena si avvicinava mi alzavo e me ne andavo a sedere da un'altra parte, senza rivolgergli la parola. Poi facemmo pace e ricominciammo ad andare in montagna, ma sceglievo io le gite e si facevano le soste.
Lo portai a fare scialpinismo nelle Orobie, approfittando del fatto che non sapesse assolutamente sciare . Gli feci passare una giornata da incubo, tornò giù mezzo morto per la fatica e la tensione, dopo essere caduto un migliaio di volte nella neve pesante e crostosa, mentre io ridevo e chiacchieravo con gli amici. Non gli feci nemmeno una carezza, e mentre gli tenevo le punte degli sci perché altrimenti non saremmo mai tornati a casa, mi affiorò spontaneo sulle labbra quel ghignetto sadico che tante volte avevo visto sulle sue, di labbra. Lui non era più Dio, io non ero più sadomaso, e diventammo finalmente amici, e una cordata quasi normale. Però non ho mai smesso di attaccarmi ai chiodi e di fare grovigli. Di fare i maglioni invece sì.
Ogni tanto passavano piccole candide nuvole estive, batuffoli innocui e leggiadri, proprio un’iconografia da paradiso, adattissima, perché io stavo trotterellando, su pendenze per me abitualmente improponibili, dietro a Dio.
Beata innocenza, dolce fiducia in Dio: la fede.
Guardavo quei ramponi che si allontavano da me a ogni tiro, e non mi sfiorava il dubbio – neanche uno piccolo piccolo – che Dio sarebbe potuto scivolare, che quelle punte triangolari d’acciaio avrebbero potuto conficcarsi per bene nelle mie carni come denti di squalo, e che infine saremmo piombati lungo il canale di neve indurita e ghiaccio, finalmente abbracciati, peccato quei trecento metri o giù di lì prima di arrivare nella posizione orizzontale a lungo sognata.
Dio era Dio, e Dio – lo sanno tutti – usa da Dio i ramponi. Dio non incespica, Dio non si rampona l'orlo dei calzoni, Dio non fa quelle pirlate che fanno i comuni mortali.
Adesso che ci ripenso, non controllavo neppure di essere in sicura, e se le viti da ghiaccio Dio le mettesse davvero o facesse solo finta, come lui e un altro suo socio avevano fatto varie volte, in un lontano passato, con un nostro collega paurosissimo.
La chiamavano la "sicura psicologica", quei due sciagurati, e consisteva nel passare una corda nel moschettone in sosta, senza la seccatura di nodi o altri vizi borghesi da rammolliti. Un giorno il collega era inciampato mentre risaliva facili roccette in Grignetta, la corda si era srotolata allegramente per parecchi metri prima che i due riuscissero a bloccarla, la vittima per poco non era morta di spavento – in montagna non ci era più andato, e ogni volta che si nominava una qualunque cima strabuzzava gli occhi ed emetteva lugubri profezie.
Era, per fortuna, un periodo in cui mi facevo poche domande, e soprattutto non mi facevo domande che avrebbero potuto avere risposte imbarazzanti. Tipo: che cosa ci faccio qui, con il naso appiccicato alla neve indurita di un canale chiuso tra le rocce, e i polpacci indolenziti dal balletto sulle punte? Oppure: il legame in una cordata è sempre una cosa sana da montanari, solidale, o nasconde indicibili pulsioni oscure? In altre parole, non avevo ancora capito che Dio era un sadico raffinato, che dopo anni di attesa aveva trovato la vittima perfetta per i suoi esperimenti di potere: poca stima di sé, figure genitoriali assenti e soprattutto disperatamente innamorata di lui.
Dio era un tipo solitario, ai maschi sotto sotto piaceva poco perché lo trovavano altero. In effetti si esprimeva a monosillabi borbottati, e aveva un’espressione molto spesso disgustata. Non sorrideva quasi mai, più che altro faceva un ghigno sofferto del tutto privo di allegria. Con me ogni tanto scoppiava in una breve risatina nervosa di difficile interpretazione. Alle donne invece piaceva parecchio perché quella cupezza muta aveva un suo fascino – era un uomo di vasta e profonda cultura – e infine era anche piuttosto bello. Con le donne comunque era altero il triplo, un ghiacciolo. (Ora non più, invecchiando è molto migliorato: sembra quasi normale, gli è passata anche la cupio dissolvi che lo portava a cercare la morte in imprese solitarie).
All’inizio non avevo colto il pericolo incombente. “Ti piace andare in montagna?” era stata la prima domanda che mi avevano rivolto mentre mi aggiravo timorosissima tra le scrivanie del giornale, vergognandomi come una ladra delle mie origini borghesi. Anzi, era andata così, che mi avevano chiesto che tipo di associazioni avessi frequentato, e io maledicendomi per non aver mai messo piede nella sezione del partito vicino a casa mia – d’altra parte non aveva una buona fama, perché era in centro a Milano e dunque sospetta di radical chic: si chiamava Perotti-Devani e tutti la chiamavano Salotti & Divani – avevo detto di essere iscritta alla scuola Italia-Urss e poi (più a bassa voce) al Cai. “Meglio il Cai, l’Urss lasciamola perdere”, mi avevano detto. Come pezzo di prova, accolsero la mia proposta di scrivere di una gitarella nel lecchese, per le pagine domenicali.
La relazione della modesta ascensione sulla vetta del Cornizzolo piacque.
Fu così che mi ficcai nei guai fin dall’inizio.
Non c’era un vero e proprio Cral aziendale, ma un’associazione a delinquere di stampo alpinistico. Da anni non assumevano nessuno, e dunque non avevano più malcapitati ignari su cui infierire con le attività dopolavoristiche. Mi accolsero come lupi ansiosi di papparsi Cappuccetto Rosso, e io abboccai, del tutto inconsapevole delle dinamiche diaboliche di quell’alpinismo tragicamente maschio e proletario, segretamente competitivo.
La regola numero uno era che non si facevano passeggiate. O si scalava, o si scarpinava. Per l’escursionismo esistevano solo due montagne: il Resegone (dal ripido, scomodo canalone della Valnegra) o il Grignone (davanti o dietro, tanto era comunque una cammellata infinita).
La regola numero due era che si faceva tutto in fretta e furia, perché poi si andava a lavorare e a guardar le pagine in tipografia.
La regola numero tre è che non si mangiava e non si beveva, e non si facevano soste. Mai. A meno di non simulare malori di una certa entità (però avevo paura a farlo, perché già mi vedevo marchiata: borghese, molle e viziata). Un giorno io e Dio camminavamo da un paio d'ore nella neve e io presi coraggio e rallentai impercettibilmente il passo in modo da restare indietro di una ventina di metri, e appena al riparo di un avvallamento carsico mi ficcai la mano in tasca per azzannare di nascosto un brandello di pane e mortadella. Dio però vede tutto e si girò, scandalizzato: "Ma che fai, mangi?". Per poco non morii soffocata dal pane e dai sensi di colpa.
La regola numero quattro non era esplicitata ma era la più perniciosa, perché diceva che se facevi qualcosa di impegnativo con un capobranco, poi ti toccava giocare al rialzo con l’altro. Era un’escalation di salite.
Dopo un po’ apparve chiaro che c’era una rivalità spaventosa tra i due più forti alpinisti della redazione, Dio e un altro. Ma mentre l’altro agiva alla luce del sole, Dio lavorava in clandestinità, proponendomi gite tete-a-tete, di nascosto, neanche fossero stati convegni amorosi segreti. Io obbedivo ciecamente, con devozione bovina.
Era una situazione eccitante e al tempo stesso terrorizzante. I miei capi erano quasi tutti uomini di mezza età, con desideri nascosti e insoddisfatti di paternità, che riversavano sui nuovi venuti: solo che più che padri benevoli parevano dèi dell’Olimpo, capricciosi, iracondi, gelosi l’uno dell’altro, capaci di atroci vendette. Quando io e Dio tornavamo dalle nostre gite, facendo finta di nulla, lui si beccava occhiatacce e io delle scenate per futili motivi.
Andò avanti un anno, era sempre peggio. Dio un pomeriggio mi si avvicinò in silenzio e mi sibilò: “Vai a casa a fare lo zaino. Piccozza e ramponi. La Brenva è in condizioni”.
Mi toccò fuggire dalla redazione, dovevo ancora scrivere un articolo, lo scrissi in macchina su un pezzo di carta, uno dei capi mi inseguì urlando nel cortile, incazzato nero. Arrivai a Courmayeur che già stavo vomitando per il terrore di perdere il posto al giornale (che ancora ufficialmente non avevo avuto), telefonai il pezzo, mi trascinai non so come al Ghiglione aggrappandomi a dei cavi di acciaio e superando una terminale da colpo apoplettico, e caddi esanime sul colle. Il rifugio pencolava sinistramente verso il ghiacciaio della Brenva – i cavi stavano cedendo – i crepacci erano fauci nerastre spalancate sotto il terrazzo, il tetto perdeva e faceva così freddo che il pavimento della sala da pranzo era pieno di ghiaccio e io ci piantai un volo rovinoso, sotto gli occhi prima attoniti poi compassionevoli di due cordate di polacchi.
Fu una notte atroce. Mi pareva di essere Maria Goretti, però all’incontrario. Il sesso sarebbe stato perfetto, era morire che mi scocciava. Va bene l’amore, ma nessun amore mi avrebbe sospinta su per lo Sperone della Brenva, in mezzo a seracchi di dimensioni colossali e paretine di ghiaccio da cardiopalmo. Appena partiti dal rifugio infilai al buio la gamba in un buco probabilmente infinito, supplicai la grazia della rinuncia alla vetta e l’ottenni sentendomi un verme, un'inetta, una vile, una codarda, una spazzatura umana indegna di Dio.
Non si poteva andare avanti così. Anche l’amore non corrisposto, anche l’amore sadomaso (ma ancora non sapevo che fosse sadomaso) ha i suoi limiti. Facevo una fatica terribile, eravamo sempre insieme, e manco una carezza, solo quei risolini che non capivo se mi considerasse divertente o un caso umano perché nelle mie mani le mie corde si aggrovigliavano per magia e arrampicavo gemendo e aggrappandomi come una scimmietta a qualunque cosa sporgesse dalle pareti: alberi, chiodi, rinvii, piedi di alpinisti di altre cordate.
Alla fine forzai la situazione, con la disperazione dell’ingenuità. Fu un errore tremendo o forse la salvezza. Gli feci, lavorandoci di notte, un maglione norvegese stile tragedia del Pilone Centrale. Un maglione orribile, informe, rosso bandiera, vistosissimo e spesso come un materasso, con le maniche che partivano larghissime e si fermavano a metà avambraccio, con effetto laccio emostatico. Nel pacco infilai una letterina, ne ho rimosso il contenuto, non voglio ricordare, mi rifiuto. Entrai in punta di piedi nel suo ufficio, glielo posai sulla scrivania e fuggii.
Non ci fu alcuna reazione. Zero. Nada de nada. E lì si vide che magari per amore ero disposta a fare sforzi sovrumani, ma non ero disposta ad “azzerare” la mia dignità.
Il giorno dopo andai da lui con gli occhi gonfi di lacrime ma decisa a non singhiozzare: “Non sono un cane e non puoi trattarmi come un cane” dissi, ricacciando indietro il pianto, e uscii il più dignitosamente possibile senza voltarmi. Lui rimase lì senza saper che dire, anche perché poco prima a mia insaputa era passato uno dei miei padri adottivi, che aveva capito tutto, insultandolo a sangue e minacciando di picchiarlo.
Non gli parlai per un mese, lui a quel punto mi seguiva ovunque. Appena si avvicinava mi alzavo e me ne andavo a sedere da un'altra parte, senza rivolgergli la parola. Poi facemmo pace e ricominciammo ad andare in montagna, ma sceglievo io le gite e si facevano le soste.
Lo portai a fare scialpinismo nelle Orobie, approfittando del fatto che non sapesse assolutamente sciare . Gli feci passare una giornata da incubo, tornò giù mezzo morto per la fatica e la tensione, dopo essere caduto un migliaio di volte nella neve pesante e crostosa, mentre io ridevo e chiacchieravo con gli amici. Non gli feci nemmeno una carezza, e mentre gli tenevo le punte degli sci perché altrimenti non saremmo mai tornati a casa, mi affiorò spontaneo sulle labbra quel ghignetto sadico che tante volte avevo visto sulle sue, di labbra. Lui non era più Dio, io non ero più sadomaso, e diventammo finalmente amici, e una cordata quasi normale. Però non ho mai smesso di attaccarmi ai chiodi e di fare grovigli. Di fare i maglioni invece sì.